Gessetti dolceamari
La chiamavamo “la cameretta”, un piccolo laboratorio creativo e pieno di luce. Il pavimento di mattonelle bianche lucide con ghirigori grigi e rosa raccoglieva costantemente fili e ritagli di stoffa. L’armadio cigolante a sei ante nascondeva l’indispensabile specchio lungo in quelle centrali, mentre il manichino sartoriale gli faceva da guardiano.
La macchina da cucire era sempre a lavoro sotto la finestra e lì di fronte, sul davanzale, la scatola magica. Una di quelle rettangolari di latta, nera con qualche disegno grattugiato sul coperchio e un piccolo mondo colorato dentro. Rocchetti, nastri, aghi, bottoni, fettucce, cerniere, passamaneria, forbici. Ma soprattutto c’era la scatolina degli spilli, grigia e rosa, esattamente come il pavimento.
E in quel groviglio di aghetti d’acciaio c’erano “loro”, i gessetti bianchi. Piccoli, cicciotti, lisci, irregolari e laboriosi. Erano quasi magnetici, sì, direi attraenti. Li vedevo spesso all’opera tra le mani svelte di mia nonna mentre scrivevano tracce magiche su quelle stoffe che ben presto si sarebbero trasformate in abiti.
E avevano un profumo intenso, penetrante. La scatolina non era poi così accessibile, gli strumenti di lavoro della cameretta non erano alla mia portata, non erano giochi. Mi limitavo a guardare tutto seguendo il ritmo della macchina da cucire, senza mai toccare nulla.
Ma un giorno l’istinto fu irrefrenabile: quando fui sola cercai la scatolina, la presi, la aprii e tirai fuori un gessetto bianco. Non resistetti e lo misi in bocca.
Un sapore amaro arrivò improvviso dalla bocca alla testa. Non mi ero sbagliata del tutto, aveva un gusto forte, deciso, imponente. Ma avrei dovuto continuare a guardare lavorare quel gessetto senza disturbarlo e prenderlo per me. Non mi era piaciuto affatto quel sapore ma il suo fascino non era andato perduto.
La magia di quella cameretta rimase immutata.